Nella malattia mentale sovente accade che la consistenza dell’Io della persona svanisca e venga sostituita da quella che molti autori hanno definito come un’inquieta “leggerezza dell’essere”, tanto che i pazienti riferiscono un’ ampia gamma di stati soggettivi anomali e disturbi nell’esperienza di sé.
In alcuni frangenti, l’individuo può giungere a perdere la consapevolezza di essere lui ad agire nella quotidianità della sua esistenza, talvolta mettendo in dubbio che la propria persona sia all’origine dei propri pensieri ed azioni. Dunque, nei casi più gravi, i pazienti possono credere che i loro pensieri siano stati inseriti nella mente da qualche agente esterno.
La persona può sentirsi invasa dalle diverse possibilità che di volta in volta il corso degli eventi pone dinnanzi ed emerge di conseguenza una sostanziale incapacità di prendere anche le decisioni più semplici, come per esempio cosa mangiare a pranzo o a cena.
Uno dei vissuti emotivi che più frequentemente viene riferito dalle persone affette da malattia mentale è l’angoscia, che talora riguarda la loro stessa sopravvivenza.
A tali stati soggettivi, si accompagnano esperienze di frequenti delusioni relazionali e fallimenti, che lasciano l’individuo con il sentimento di essere socialmente incompetente e con un senso pervasivo di disorientamento e di “non sintonizzazione” rispetto al mondo circostante. Spesso, infatti, la persona con disagio psichico fatica ad intuire con accuratezza i pensieri e le emozioni degli altri individui e trova difficoltà ad adattarsi alle situazioni sociali, maturando convinzioni anche profonde di essere sgradevole o dannosa per gli altri o timori rispetto ad un inevitabile rifiuto o abbandono, aspetto questo estremamente doloroso e fonte di una sofferenza che, se non viene accolta e opportunamente contenuta, può condurre il paziente a commettere gesti estremi. Nelle fasi acute della malattia, le persone sono convinte che i loro bisogni di relazione e di vicinanza non potranno mai essere corrisposti e soddisfatti e ciò può indurre la persona a porsi nella relazione, fornendo un’immagine di sé come fortemente bisognosa, arrendevole, accomodante, specie con i famigliari oppure può, al contrario, elicitare condotte di evitamento o di sospetto.
Nelle forme più invalidanti del disagio psichico, specie quelle dove il malessere della persona assume livelli di intensità e di ricorrenza particolarmente accentuati, la sofferenza di chi vive questa condizione si intreccia inevitabilmente con le vite dei famigliari ed è importante approcciarsi alla realtà del paziente tenendo in debita considerazione non soltanto la sua condizione personale, ma anche il momento del percorso di vita in cui si trova il nucleo famigliare all’interno del quale lo stesso si colloca.
Per esempio, un momento particolarmente delicato nelle famiglie, in cui la persona che sta male è un figlio in età adulta, è quello dell’invecchiamento dei genitori e del doloroso tema del “dopo di noi”. In altri contesti famigliari, invece, dove il paziente è un adolescente o un giovane adulto, possono giocarsi temi diversi, come la tendenza coatta a soddisfare le aspettative degli altri, ad essere esageratamente bravi, forti, coraggiosi, responsabili o impavidi, non lasciando spazio al vero Sé di chi si trova in una condizione di sofferenza.
Ci sono nuclei famigliari con un funzionamento differente dagli esempi citati sopra, dove accade che la sofferenza di uno dei componenti non venga percepita e di conseguenza non venga compresa la necessità di richiedere un aiuto.
Vi sono, poi, famiglie totalmente ripiegate su sé stesse, preoccupate dal pensiero e dal giudizio del mondo esterno oppure nuclei famigliari in cui emergono comportamenti intrusivi, dove spesso vengono a mancare confini fisici e soprattutto psicologici tra i vari membri, una condizione che mina la fiducia e la sicurezza nello stare assieme.
I famigliari delle persone con disagio mentale grave riferiscono come la vicinanza alla persona che soffre sia talora fonte di vissuti emotivi altamente impattanti, che vanno dalla paura, alla sensazione di solitudine ed isolamento, all’esasperazione, conseguente al fallimento dei loro sforzi di contenere la sofferenza del paziente, che spesso si accompagna a tentativi di persuaderlo dell’ inadeguatezza della sua visione della realtà, che vengono sistematicamente rifiutati. Per descrivere questa condizione, Lingiardi e McWilliams hanno evidenziato come il paziente sia intrappolato in una versione dolorosa del “dilemma del porcospino” di Schopenhauer: troppa vicinanza con gli altri provoca un dolore fortissimo, ma un’eccessiva distanza comporta solitudine, isolamento sociale e impoverimento della propria qualità della vita.