Il termine neurodiversità è stato impiegato per la prima volta nel 1998 dalla sociologa Judy Singer, che con questa parola voleva proporre il concetto di biodiversità neurologica, a cui si fa riferimento quando si accenna alle naturali variazioni tra un cervello e l’altro, un sistema nervoso e l’altro, all’interno della specie umana (l’idea di neurodiversità è stata avanzata per “bilanciare il modello medico con un modello sociale che inquadri la disabilità nel contesto delle intersezioni di classe, genere, stato socio-economico, disabilità, età”). Con il tempo la neurodiversità è diventata un vero e proprio paradigma bio-politico a tutela dei diritti delle persone neurologicamente diverse dai cosiddetti neurotipici, offrendo una contro-narrativa al modello medico tradizionale, che rischiava di divenire una visione limitante o nel peggiore dei casi dannosa, nel momento in cui pervade la totalità delle dimensioni di vita della persona. Entro questa prospettiva, quando si parla di autismo, per esempio, ci si riferisce ad un pattern di caratteristiche che portano la persona a muoversi, a relazionarsi all’altro, a sentire e ad elaborare gli stimoli esterni con modalità differenti rispetto al funzionamento “normotipico”.

Si parla di neurodivergenza quando lo sviluppo neurologico di una persona differisce da quello rilevato nella maggior parte della popolazione. Nei principali manuali diagnostici di riferimento internazionale, come l’ICD-11 e il DSM-5, le neurodivergenze vengono inquadrate nei termini di disturbi del neurosviluppo. All’interno delle neurodivergenze rientrano dunque condizioni cliniche quali l’autismo, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), la dislessia, la disprassia e la Sindrome di Tourette. In passato la neurodivergenza veniva interpretata come una condizione problematica, ma ad oggi l’approccio a questa realtà è cambiato e, accanto alle fragilità e agli eventuali deficit, si pone un’ampia attenzione nel mettere a fuoco le potenzialità, le abilità, gli interessi specifici e le risorse delle persone neurodivergenti, che in quanto tali sono caratterizzate da modalità differenti di funzionamento a livello cerebrale. Nell’ambito delle neurodivergenze, la diagnosi è un processo complesso, che implica un intervento multidisciplinare e un’attenzione specifica rivolta alle differenti caratteristiche individuali, oltre che ai cambiamenti che possono avvenire nelle diverse fasi del ciclo di vita della persona.

Il termine “autismo” è stato utilizzato per la prima volta nei primi anni del 1900 da Eugen Bleuler per indicare una serie di sintomi associati alla schizofrenia, qualcosa di assolutamente lontano dall’accezione e dal significato che questa parola ha assunto successivamente.

La prima persona, che ha ricevuto una diagnosi di autismo, è stata Donald Triplett, per il quale tale inquadramento diagnostico è stato formulato dallo psichiatra Kanner, considerato il primo studioso dell’autismo, nei termini di un quadro clinico specifico, connotato da determinate caratteristiche e peculiarità, sia a livello comportamentale, di funzionamento cognitivo, affettivo, comunicativo e relazionale che sintomatologico.

L’autismo è una neurodivergenza che comporta tra le sue caratteristiche specifiche una difficoltà nell’interazione sociale, nella comunicazione verbale e non verbale e la presenza di interessi ristretti e comportamenti ripetitivi.

Il disturbo dello spettro autistico viene categorizzato entro tre livelli, a seconda del tipo di supporto richiesto dalle persone che ne soffrono. Il “mild autism” comprende l’autismo ad alto funzionamento e quelle situazioni cliniche che prima rientravano nella sindrome di Asperger. Il terzo livello, invece, racchiude le situazioni di quelle persone autistiche, che presentano importanti problematiche a livello comportamentale e interattivo.

Negli ultimi anni, anche studiosi di importanza mondiale nell’ambito della ricerca relativa allo studio dei disturbi dello spettro autistico come Simon Baron-Cohen hanno proposto una visione dell’autismo che va oltre un riduzionistico approccio medico-sanitario, evidenziando come “quando esaminiamo la cognizione e la biologia dell’autismo, verosimilmente ciò che vediamo non è la prova di un disturbo, ma piuttosto la prova di una differenza”. Ad oggi non conosciamo le cause esatte che conducono alla genesi dell’autismo, ma sappiamo che vi sono diverse alterazioni genetiche collegate alla presenza dei disturbi dello spettro autistico.

 

 

Dott.sa Erika Marchetti

Psicologa Psicoterapeuta