Dal punto di vista diagnostico, occorre precisare che il DSM-5 prevede una nuova diagnosi, la disforia di genere (302.85) negli adolescenti e negli adulti, che sostituisce il precedente disturbo dell’identità di genere.
Nel PDM-2 l’incongruenza di genere non viene considerata alla stregua di un disturbo mentale, bensì come una condizione connotata da una marcata e persistente mancanza di allineamento tra il genere di cui un individuo fa esperienza, ovvero il senso di sé e il genere assegnato alla nascita. Molti studi indicano che più intensa è l’incongruenza di genere percepita dal bambino, già prima della pubertà, maggiori sono le probabilità che essa persista in adolescenza e, inoltre, se nel corso dell’adolescenza diventa più intensa, le probabilità di un’incongruenza di genere a lungo termine aumentano. Nei casi in cui l’intervento psicoterapeutico non abbia successo nel ridurre la disforia associata all’incongruenza di genere, la riassegnazione sessuale (sociale, giuridica, medica, chirurgica) diviene il trattamento maggiormente indicato.
Aurora è una ragazza di 17 anni e giunge nel mio studio poiché, ormai da qualche anno, riferisce una sensazione di disagio rispetto al proprio corpo, che talora si trasforma in rabbia e un vissuto di “diversità” rispetto alle coetanee. Racconta come da piccola avesse interessi più comuni tra i coetanei di sesso maschile e che si sentiva maggiormente a proprio agio a giocare con i maschi rispetto alle femmine, un aspetto accolto generalmente in termini positivi sia in ambito famigliare che nel contesto sociale più ampio.
Aurora decide di rivolgersi proprio in questo frangente ad uno specialista, poiché i sentimenti di estraneità rispetto al proprio corpo e ad alcune sue connotazioni (es. il seno, le mestruazioni) si sono fatti ancora più vividi e invasivi negli ultimi mesi, dopo che si è fidanzata con una coetanea. Riporta altresì come l’incremento dei livelli di ansia e l’umore tendenzialmente depresso le impediscano di mantenere la frequenza scolastica in modo continuativo e tale aspetto sia fonte di preoccupazione, specie per i genitori, in vista degli esami di maturità, che si terranno a fine anno.
Successivamente ai primi colloqui con Aurora, in accordo con lei, imposto una prima fase valutativa, nella quale ritengo opportuno integrare al colloquio clinico la somministrazione di strumenti testistici che mi portano ad escludere la presenza di disturbi psicologici di qualsivoglia natura e a rilevare, al contempo, una continua lotta interna rispetto ai temi relativi al genere.
Insieme decidiamo che il primo obiettivo da perseguire nel contesto terapeutico è quello del rientro a scuola, una dimensione che per Aurora stessa è importante e nella quale ha sempre investito con grande passione ed entusiasmo.
Nei primi mesi lavoriamo dunque sulla pervasiva percezione di incongruenza di genere ed emerge come Aurora viva con estremo disagio il fatto di essere appellata con il proprio nome e come questo malessere sia uno degli elementi che le rendono difficilmente sostenibili le giornate scolastiche.
Aurora decide di condividere con i genitori i propri vissuti e quanto emerso in queste prime fasi del percorso terapeutico e solo in un secondo momento, su richiesta della ragazza, io stessa incontro mamma e papà in un colloquio di restituzione alla coppia genitoriale.
In accordo con Aurora e i genitori, pensiamo possa essere utile, al fine di favorire il benessere della ragazza all’interno del contesto scolastico, consentirle di utilizzare un nome neutro rispetto al genere, scelto dalla stessa e che già da qualche tempo veniva utilizzato nel contesto delle relazioni amicali più intime. Per il momento, A. dice di sentirsi maggiormente a proprio agio quando ci si riferisce a lei con pronomi femminili.
Al momento, già questi primi passi sono stati utili per A. per poter iniziare a riprendere in mano la propria vita e aprire degli spazi di riflessione sul proprio futuro, che sino ad oggi veniva vissuto dalla ragazza come carico di angosce e timori inaffrontabili.