Esistono davvero barriere e facilitatori nell’ambito dei disturbi dello spettro autistico?

In Italia sono circa 400.000 le persone con diagnosi di disturbo dello spettro autistico e dunque si rende necessaria una riflessione attenta circa le caratteristiche di questo quadro clinico, su quali potrebbero essere i fattori in grado di facilitare e migliorare la qualità della vita delle persone autistiche e quali ancora sono gli elementi di ostacolo, sia sul piano degli interventi sanitari ed assistenziali che su quello della tutela dei diritti di bambini, ragazzi e adulti.

Innanzitutto i disturbi dello spettro autistico presentano un alto livello di eterogeneità e complessità, investono una molteplicità di aree di funzionamento della persona e di conseguenza non è possibile parlare di barriere e facilitatori in senso astratto e generale, poiché non esiste un intervento che sia abilitativo o riabilitativo, che vada bene per tutte le persone autistiche oppure che funzioni meglio di altri. 

Una barriera fondamentale: la presa in carico e il trattamento delle persone autistiche

Penso che la principale barriera, quando ci si confronta con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico, sia la difficoltà per i genitori e le famiglie nell’individuare il percorso terapeutico ed assistenziale maggiormente in linea con le esigenze e i bisogni della persona autistica. Difatti ciascuna persona è unica, così come ciascuna famiglia è unica e meritevole di un approccio singolare e specifico. Paola Venuti, una delle maggiori ricercatrici ed esperte italiane nel campo dell’autismo, già nel 2012 aveva evidenziato come il trattamento più funzionale per l’autismo deve essere pensato come un intervento multimodale, integrato, radicato nella comunità e nel contesto sociale di appartenenza e deve necessariamente coinvolgere figure professionali differenti e con competenze specifiche e tra loro diversificate. Un intervento appropriato ed efficace è fondamentale per ridurre il carico assistenziale, che troppo spesso grava sulle famiglie, con un impatto considerevole sulla qualità della vita, sui progetti e sulle scelte a breve e a lungo termine delle persone coinvolte. 

Le proposte trattamentali devono essere differenziate per ciascuna persona e devono avere un orizzonte ampio, che tenga conto non solo delle esigenze del singolo bambino o ragazzo, ma anche dei bisogni del contesto famigliare e relazionale in cui è inserito. Ancora troppo spesso accade infatti che le mamme di un bimbo autistico debbano lasciare, contro la loro volontà, il proprio lavoro o lo debbano ridurre in termini di orario, perché mancano le risorse per far fronte alle necessità del piccolo. 

Da un punto di vista prettamente normativo, i livelli di assistenza garantiti alle persone autistiche dalle diverse Regioni sono molto differenti e in alcuni casi addirittura assenti. 

Nel contesto italiano inoltre, sino a poco tempo fa, il trattamento di un bambino autistico seguiva alcune linee standardizzate e generali, che non sempre erano realmente funzionali rispetto alla concretezza di ogni specifica situazione. Di fatto gli interventi proposti, ciascuno con cadenza di una volta a settimana, consistevano nella neuropsicomotricità, nella logopedia ed eventualmente nella musicoterapia. Oggi la proposta risulta leggermente più variegata, ma in alcune realtà territoriali gli standard di intervento sono rimasti sostanzialmente quelli sopra citati. Naturalmente le necessità, in termini diagnostici, specie di una valutazione precoce, assistenziali ed educativi, sono ben più ampie e diversificate. Intanto, la ricerca sta ampiamente dimostrando come, per una corretta presa in carico del bambino e del ragazzo autistico, gli interventi psicoeducativi, soprattutto quelli iniziati precocemente e condotti in maniera intensiva, sono assolutamente indispensabili. Le metodologie più diffuse sono il metodo ABA e il metodo Denver, ma non sono le sole a disposizione e comunque un fattore che accomuna questo tipo di intervento è la durata, che tendenzialmente si assesta sulle 15 ore settimanali, aspetto che talvolta finisce con il precludere ad alcuni l’accesso a questo tipo di servizi, a cui la persona dovrebbe avere diritto, a prescindere dalle disponibilità economiche di ciascun nucleo famigliare. 

Quali sono i potenziali facilitatori per una persona autistica: il ruolo della scuola

Anche in questo caso non è possibile fare un discorso generale, ma senz’altro un intervento efficace deve partire dalla famiglia e dal sistema scolastico. Gli insegnanti devono essere formati non solo sulle specificità della diagnosi di disturbo dello spettro autistico, ma anche sulle strategie e sulle metodologie più funzionali e scientificamente fondate per stimolare le competenze cognitive dei bambini e dei ragazzi, le abilità attentive, l’ascolto e le capacità relazionali ed interpersonali, affinché il processo di inclusione non sia solo teorizzato e proposto astrattamente, ma divenga una realtà, in grado di tenere all’interno della rete scolastica ed educativa, anche le situazioni di maggiore fragilità. Certamente questo significa includere nella didattica , così come viene tradizionalmente intesa e praticata, dimensioni ancora oggi per nulla scontate, quali l’attenzione alla corporeità, alle esperienze creative e multisensoriali, a modalità comunicative alternative, che passano attraverso la stimolazione visiva e per immagini, la comunicazione non verbale e la gestualità. La scuola in questo senso deve diventare non soltanto un luogo di trasmissione del sapere e delle abilità, ma uno spazio di ascolto, di accoglienza e di cura della persona nelle sue dimensioni cognitive, affettive e fisiche, dove anche gli spazi fisici possano essere strutturati, da un punto di vista pedagogico, per  favorire gli apprendimenti, adeguando setting e tempi alle persone concrete con cui ci si trova ad interagire. 

 

Dott.sa Erika Marchetti

Psicologa Psicoterapeuta